L’antifascismo e la “guerra della memoria”. Una riflessione storica.
L’antifascismo non è un dato di fatto. Non esiste di per sé, non risiede nell’animo delle persone e, soprattutto, non è una categoria storica da dare per scontata o, al contrario, insormontabile. L’antifascismo è una pratica sociale che si rigenera nel suo stesso farsi, non è un assoluto dogmatico, non è un attributo istituzionale e non è un feticcio della democrazia rappresentativa, perché non lo è mai stato. La stessa parola anti-fascismo implica l’inevitabilità di un’opposizione, non nasce come attributo neutro dell’azione politica ma richiede uno scontro, un conflitto, una negazione del suo opposto negativo che è, giustappunto, il fascismo. Infarcire la retorica con questa parola, ormai, serve a poco più che provocare un ghigno soddisfatto sulla bocca di chi oggi può permettersi di rivendicare pubblicamente un attentato senza la paura dello stigma sociale e, in particolare, senza il terrore di subire alcuna ripercussione sul piano pratico. E non si tratta dell’applicazione di una legge come quella, ridicola e mai applicata, fatta approvare dal Pd lo scorso settembre con grande sfoggio di fanfare al fine di giustificare il proprio posizionamento nell’arco parlamentare e il cui esito è stato, per ora, solo quello di alimentare i piagnistei di chi si dipinge come un perseguitato politico. Si tratta di fare rinascere la legittima paura in chi pensa di essere autorizzato a fare il pistolero avvolto nel tricolore per le strade delle nostre città, e che invece deve tornare a sapere che ad ogni tentativo di mettere in mostra la propria faccia ci sono altrettante persone pronte a rompergliela.
Questo deve accadere perché la memoria partigiana e antifascista non è diventata memoria collettiva del nostro paese in maniera automatica o indolore. Anzi, attorno alla questione resistenziale è stata combattuta, a lungo, una vera e propria “guerra della memoria” che ha coinvolto a più riprese tutti gli attori politici, dal dopoguerra ai giorni nostri.
Fino all’inizio degli anni Sessanta, infatti, l’antifascismo in Italia è stato taciuto e messo sotto il tappeto. Il motivo risiede nel conflitto esistente tra la Costituzione scritta antifascista e la “costituzione materiale” anticomunista, che aveva costretto tutti i partiti dell’arco costituzionale ad un gioco delle parti in cui bisognava limitare l’espansione del Partito comunista e, insieme, negare le potenzialità rivoluzionarie presenti nella lotta partigiana. La Resistenza, allora, era unitaria, patriottica, nazionale, persino “risorgimentale”, ma quasi mai era descritta come lotta di classe, come riscatto popolare. Diventava allora memoria per pochi, effige sbiadita di una “occasione mancata”, di una “rivoluzione tradita” che quasi nessuno aveva voglia di riscattare.
Fu necessario un governo monocolore democristiano (Tambroni) appoggiato dal Msi, erede del partito fascista, nel 1960 a redimere anni e anni di buio antifascista. Il riscatto prese la forma della sommossa, della rivolta di popolo e di classe, che da Genova a Palermo, passando per Reggio Emilia, divampò grazie all’incontro tra le generazioni diverse dell’antifascismo storico e dell’antifascismo dei “giovani con le magliette a strisce”. In loro c’era un deposito di valori resistenziali, come ha notato lo storico Andrea Rapini, ma questi stessi valori si esplicitarono, soprattutto, grazie alla partecipazione collettiva ai momenti conflittuali del luglio ’60, comportando un recupero attivo della memoria antifascista, nonché la sua ri-significazione.
Questo perché, come già detto, l’antifascismo non può esistere di per sé, ma ha bisogno della pratica collettiva e di un esercizio condiviso per continuare a svolgere un ruolo proficuo nella sua caratteristica di “carattere oppositivo” all’interno della lotta politica. L’antifascismo non ha senso se slegato dal contesto sociale in cui deve ricoprire il ruolo di un immaginario propositivo, non di una banderuola svuotata di significato da sventolare nelle occasioni ufficiali.
L’ antifascismo del luglio ’60 non fu sufficiente a stroncare sul nascere l’iniziativa politica delle destre, ma provocò una crisi di governo e ristabilì la priorità dei valori resistenziali all’interno del dibattito pubblico per gli anni a seguire. Neanche dieci anni dopo, l’antifascismo non figurava più tra le priorità dei movimenti sociali, che nel 1968 vedevano l’eredità della lotta di liberazione come un universo simbolico imprescindibile, ma che era comunque rappresentato da quella stessa generazione politica di cui tentavano di disfarsi. Era stato Sergio Bologna, pochi anni prima, a redarre una violenta polemica contro il recupero istituzionale e borghese dell’antifascismo tramite un articolo sui “Quaderni Piacentini”, nel quale la retorica celebrativa unitaria della Resistenza era accostata al rifiuto degli «infantili piagnistei e compiacenti recriminazioni sugli “ideali traditi” e la “rivoluzione mancata”». Erano passati solo quattro anni dall’insurrezione del luglio ’60, è già la retorica antifascista puzzava di vecchio e stantio.
L’antifascismo rinacque, come pratica antagonista, solo quando fu evidente che lo Stato si stava servendo della manovalanza neofascista per destabilizzare l’avanzata delle lotte sociali e bloccare le importanti conquiste ottenute dal “biennio rosso” ’68-’69. Ancora una volta, l’antifascismo si fece prassi condivisa e ricostituì un orizzonte comune, grazie ai movimenti e alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare che ne raccolsero l’eredità fossilizzata dalla sinistra storica. E, mentre il Pci e le organizzazioni formali per la trasmissione della memoria partigiana (come l’Anpi) perdevano consenso e legittimità a sinistra, il movimento elaborava nuove esperienze e sensibilità collettive in contesti dove l’antifascismo militante e la mitologia resistenziale venivano vissuti e rielaborati all’interno di una «dimensione emotiva della politica», come ha scritto Barbara Armani.
Pochi anni dopo, l’antifascismo diventò la scusa con cui reprimere quegli stessi movimenti che ne avevano accolto l’eredità. Grazie ad «un riassorbimento della sua carica anomica e di una perimetrazione del suo campo di esercizio nella sfera di un’inoffensiva “etica della democrazia”» (Roberto Charini, 2005), i maggiori partiti dell’arco istituzionale, Pci e Dc, inaugurano la fase del “compromesso storico” e dell’emergenza. Qui la tematica antifascista fu utilizzata per promuovere una “nuova Resistenza” che si richiamava alla collaborazione governativa interrotta nel 1947, con lo scopo dichiarato di combattere la forza dirompente dei movimenti sociali e i gruppi armati della sinistra extraparlamentare (ormai definiti, tout court, fascisti). Iniziò così a profilarsi una dinamica di oblio che praticava il depotenziamento del ricordo resistenziale nelle celebrazioni pubbliche e nell’azione politica tramite la riproposizione di un antifascismo “unitario” che escludeva quanti, in quegli anni, avevano elaborato – e messo in pratica – una ri-attualizzazione concreta dei valori resistenziali.
La memoria pubblica della Resistenza antifascista, in pratica, ha rappresentato un formidabile mezzo di legittimazione politica nel corso di tutta la cosiddetta “prima Repubblica”, per poi perdere autorevolezza in seguito agli anni della solidarietà nazionale che unì le istituzioni e i partiti in funzione anti-emergenziale sul finire degli anni Settanta. L’antifascismo, secondo lo storico Alberto De Bernardi, avrebbe infatti innervato «il tradizionale orizzonte democratico di uno spirito “attivistico”, che rimandava alla centralità della partecipazione e del conflitto sociale», in maniera tale da sopperire al deficit storico di una Repubblica a democrazia incompiuta come quella italiana. Ma la perdita e il riassorbimento del cosiddetto “paradigma antifascista” entro i parametri di un orpello formale di cui fregiarsi nel corso delle cerimonie ufficiali ha escluso, ancora una volta, la possibilità di un antifascismo sociale, vivo e riproducibile.
Pochi giorni fa, Alessandro Portelli ha scritto sul Manifesto che i fascisti sono stati legittimati nel momento in cui sono stati riconosciuti dei “valori” ai repubblichini e i partigiani sono stati accusati di “ideologia”; questo è senz’altro vero per quanto riguarda il versante istituzionale, ma sul fronte sociale la battaglia non si è mai chiusa e deve tornare ad essere combattuta in campo aperto. Questa breve retrospettiva sul passato non ha la velleità di insegnare qualcosa, né la volontà di innescare un artefatto meccanismo di nostalgia per i “bei tempi andati” di una democrazia che funzionava a pieno regime e i fascisti bisognava andare a cercarseli per il puro gusto di menare le mani. Quel passato non è mai esistito, e anche se lo fosse, non può e non deve fungere da dito dietro il quale nascondersi mentre ci viene indicata la più urgente necessità di far fronte al fascismo in carne e ossa che ci troviamo di fronte.
All’antifascismo retorico dei partiti, rispolverato solo in campagna elettorale (salvo poi tirarsi indietro nel momento in cui si dovrebbe scendere in piazza a Macerata) è giusto rispondere con un antifascismo sociale, inclusivo e soprattutto comprensivo di un antirazzismo politico che pensa il razzismo come strutturale, non certo come un atto individuale.
Un ultimo, breve, appunto sulle immancabili annotazioni fanta-storiche e metafilosofiche (per non dire supercazzolistiche) di un noto adepto neo-previano, (per non dire noto rossobruno) che risponde al nome di Diego Fusaro. Di recente, il noto anticapitalista da salotto televisivo della prima serata si è sperticato in strumentali attacchi contro la presunta “caricatura” dell’antifascismo, arrivando a chiamare in causa nientemeno che il dibattito comunista degli anni ’20 (sic!) sulla necessità o meno di praticare la lotta antifascista nel periodo antecedente alla marcia su Roma. Tralasciando la strumentalità con la quale il “nostro” chiama in causa Gramsci, elogiandone lo spirito antifascista “nazionale” (eh?), ma allo stesso tempo riesumando vecchi slogan incartapecoriti di Bordiga (che di Gramsci era un avversario politico all’interno dello stesso PCd’I, fatto arcinoto e risaputo), mi permetto di lasciare un inciso tratto da un editoriale dello stesso Gramsci su “L’ordine nuovo” del 15 luglio 1921, a proposito della necessità di sostenere l’antifascismo “militante” degli “Arditi del popolo”:
«I comunisti sono anche del parere che per impegnare una lotta non bisogna neppure aspettare che la vittoria sia garantita per atto notarile. Spesse volte nella storia i popoli si sono trovati al bivio: o languire giorno per giorno di inedia, di esaurimento, seminando la propria strada di pochi morti al giorno, che diventano però una folla nelle settimane, nei mesi, negli anni; oppure arrischiare l’alea di morire combattendo in un supremo sforzo di energia, ma anche di vincere, di arrestare d’un colpo il processo dissolutivo, per iniziare l’opera di riorganizzazione e di sviluppo che almeno assicurerà alle generazioni venture un po’ più di tranquillità e di benessere. E si sono salvali quei popoli che hanno avuto fede in se stessi e nei propri destini e hanno affrontato la lotta, audacemente».
Con buona pace del sovranismo e dell’inattualità della lotta.
Bibliografia
Barbara Armani, “La retorica della violenza nella stampa della sinistra radicale”, in Simone Neri Serneri [a cura di], Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, Il Mulino, Bologna, 2012.
Roberto Chiarini, 25 Aprile. La competizione politica sulla memoria, Marsilio, Venezia, 2005.
Alberto De Bernardi, Discorso sull’antifascismo. A cura di Andrea Rapini, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
Il Franco Tiratore, “La Resistenza oggi: miti ed equivoci”, in Quaderni piacentini, n.15, marzo-aprile 1964.
Alessandro Portelli, “Aperta la diga dell’antifascismo dilaga l’odio razziale”, il Manifesto, 6 febbraio 2018.
Andrea Rapini, Antifascismo e cittadinanza. Giovani, identità e memorie nell’Italia repubblicana, Bononia University Press, Bologna, 2005.
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